Sono sempre stato un Nerd patentato. A 6 anni, mentre mi innamoravo del calcio, mio padre mi insegnava a usare Ms-Dos (quello che oggi è il prompt dei comandi su Windows) su un vecchissimo portatile Epson degli anni ’80. Parallelamente scoprivo la passione per i videogiochi da miei compagni di classe e vicini di casa. I pomeriggi passati a casa di un amico a giocare sul Super Nintendo, il primo Fifa Soccer in 2d nel ’95 e poi, come per magia, il primo computer fisso nel ’97 con cui giocare a Fifa ’98, ad oggi ancora il mio primo grande amore videoludico che univa il calcio ai videogiochi.
Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Quando ero un ragazzo problematico e fin troppo vivace, i videogiochi mi hanno aiutato a socializzare, a farmi degli amici in tenera età. Oggi ho 33 anni e il mio attaccamento verso l’intrattenimento videoludico col tempo si è evoluto. Prima era solo amore per il gaming in sé, anche con scarso gusto videoludico, poi la grande voglia di provare nuove tecnologie, gli ultimi ritrovati della grafica, del design, di provare tanti generi diversi ha attecchito in me un appetito onnivoro verso svariati generi: dagli strategici ai manageriali, dalle avventure punta e clicca agli sparatutto, passando per gli open world. Col tempo sono diventato anche collezionista di Playstation. Lo stesso mondo dei videogiochi si è evoluto con me, prima vissuto come un bambino, poi con videogiochi sempre più simili a libri o grandi film, dalla trama profondissima e, non mi vergogno a dirlo, certe saghe mi hanno anche formato come uomo.
Un giorno però i videogiochi mi hanno anche salvato la vita, non mi vergogno a dire neanche questo, anzi lo rivendico con orgoglio. Lo hanno fatto ai tempi del mio tumore, che fu il punto di arrivo di un annus horribils per me, che mi vide perdere prima la salute, poi alcuni affetti e, infine, anche il lavoro, al tempo. Dire che ero giù di morale è un eufemismo e nel mio isolamento conobbi un videogioco, Destiny, che tutt’ora porto nel cuore, per gli amici che ho conosciuto online, ma anche nella vita reale. Rifugiarmi in quel mondo fantascientifico dentro quel videogioco, ma anche e soprattutto aver stretto rapporti con le persone che ho conosciuto, mi ha aiutato a risollevarmi da una situazione molto problematica. Come mi ha aiutato Cycling Manager, un semplice manageriale di ciclismo che, grazie alle responsabilità connesse di moderatore prima e amministratore poi della comunità ufficiale italiana, co-fondato da me nel 2003 e che ad oggi ha ancora oltre 10 mila iscritti, ha dato un senso a tante cose nella mia vita. Senza la comunità di Cycling Manager Italia, ad esempio, dieci anni fa non avrei mai fatto lo scoop sulla bici truccata. Grazie ai videogiochi trovai anche uno dei miei primi lavori: Come beta tester di Football Manager, grazie a un contatto finii a lavorare sui camion regia di Sky, nel 2010, come grafico in sovrimpressione. Aggiungo che forse, senza i videogiochi, non sarei neanche mai diventato giornalista sportivo, se i miei genitori non avessero sopportato le mie telecronache a Fifa in tenera età.
Racconto questa mia esperienza perché era da tempo che volevo farlo, ma anche perché oggi si tende ancora, con ignoranza, a demonizzare il ‘medium videoludico’, dando colpa ai videogiochi di tante cose, come dell’aggressività e violenza dei propri figli. La realtà forse è un’altra, perché esistono videogiochi per adulti e videogiochi per bambini e ragazzi. Da anni esiste il sistema Pegi, il cui elemento fondante è il numero: 3+, 7+, 12+, che non indica il numero di livelli o la difficoltà del gioco, ma l’età minima consigliata. Tutti quei videogiochi ‘violenti’ che vengono demonizzati perché giocati dai bambini semplicemente non dovrebbero essere giocati in tenera età. Forse la colpa, per i problemi connessi alla dipendenza e agli scatti di violenza dei ragazzi che usano i videogiochi, è anche la tendenza dei genitori di parcheggiare davanti allo schermi i figli, lasciandoli giocare per ore senza controllo. Ecco che così arrivano problemi di apprendimento, la sedentarietà e la salute è messa a rischio. Occorre, come in tutte le cose, il buon senso. Abusare di qualcosa è sempre sbagliato. Mangiare troppo porta a rischi per la salute, fumare fa male, diventare dipendenti di sostanze stupefacenti anche. Tutto, se preso nelle dosi sbagliate, può portare alla dipendenza, anche i videogiochi. Forse con dei genitori più consapevoli e sensibili alla realtà che circonda gli stessi figli, magari abbattendo certe barriere generazionali, si potrebbe fare migliore informazione e sì, anche evolvere e abbracciare modi diversi di pensare, come di sicuro essere maggiormente consapevoli riguardo gli stessi videogiochi, senza che l’ignorante politico di turno si indigni ergendosi come il solito gigante dai piedi d’argilla, quando interrogato seriamente sull’argomento.
‘Medium videoludico’ dicevo, perché ormai alcuni contenuti sono più vicini a colossal cinematografici, con investimenti da milioni di dollari. Death Stranding ad esempio, diretto e scritto da Hideo Kojima, il visionario game designer con la passione per il cinema (“Il settanta per cento del mio corpo è composto da film”), di recente anche tra i giurati della Mostra del Cinema di Venezia, è uno di quei videogiochi che colma quella distanza tra cinema e medium videoludico, in un ballo perfetto, tra l’altro con un cast stellare e volti celebri di hollywood del calibro di Norman Reedus (Sam in The Walking Dead), Mads Mikkelsen, Lea Seydoux, Margaret Qualley, Guillermo Del Toro e Lindsey Wagner. Io non posso che dire grazie a quella che col tempo è diventata una nuova forma d’arte. E non vedo l’ora che esca la Play Station 5, già prenotata dal mio ‘spacciatore di videogiochi’ di fiducia.